Le parole di chi resta: il dolore sospeso e la nostalgia secondo Giorgia Belvisi

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C’è una domanda semplice che apre un mondo:
che differenza c’è tra restare e andare avanti?

Da questa frattura emotiva nasce Le parole di chi resta, il nuovo libro di Giorgia Belvisi, ospite del podcast Lo Scaffale, dove ha raccontato genesi, temi e retroscena di un romanzo difficile da incasellare, sospeso tra narrativa e mappa emotiva.


Un romanzo, o meglio: una mappa emotiva

Giorgia stessa ammette che le è complicato rispondere alla domanda “che genere è?”.
Lo definisce narrativa, ma sottolinea come la trama sia solo una parte del lavoro: più della storia in sé, le interessa l’introspezione, far emergere i sentimenti, i blocchi, le attese dei protagonisti.

Al centro c’è una famiglia travolta dalla sparizione improvvisa di un figlio, un fratello: Samuel. Nessun indizio, nessuna spiegazione, nessuna chiusura. Da lì, la vita di chi resta si inceppa: il tempo va avanti, ma le persone no.


Restare, non riuscire ad andare avanti

Il verbo chiave è “restare”.

Non un restare eroico, ma un restare inchiodati a un momento:
la sparizione, la mancanza di notizie, l’incapacità di costruire qualcosa oltre quel vuoto.

La protagonista, Rosa, sorella di Samuel, racconta la vicenda in prima persona. La sua vita diventa un tempo sospeso:

  • rimane nella casa dell’infanzia,
  • non costruisce una famiglia propria,
  • vive circondata dai “fantasmi” del passato,
  • abita un silenzio che in realtà è pieno di voci, ricordi, scene che non esistono più ma continuano a risuonare.

Il restare, qui, non è una virtù, ma una prigione dolceamara: l’impossibilità di lasciare andare chi è sparito senza un perché.


Una storia vera, ma riscritta con delicatezza

Il romanzo nasce da una storia vera che Giorgia ha ascoltato: un’amica di famiglia che ha perso ogni contatto con il fratello, svanito dalla sua vita senza spiegazioni.

Da lì l’idea, ma con una premessa chiara:
la storia reale è solo un innesco, perché poi il romanzo prende un’altra strada, completamente autonoma.

Proprio per questo, l’autrice si è posta una domanda etica importante:

  • Come si scrive il dolore degli altri senza ferire nessuno?
  • Quali limiti darsi quando si romanza un vissuto che non è il proprio?

Giorgia racconta di aver cercato toni delicati, consapevole di non poter pretendere di “sapere” davvero cosa provino le persone che vivono tragedie simili. Tutto è filtrato dall’immaginazione, mai dalla presunzione di restituire la realtà in modo definitivo.

Curiosità: la persona che ha vissuto la vicenda ha letto il libro, lo ha apprezzato, ma non sa di esserne stata in qualche modo la scintilla iniziale.


La parola che racchiude tutto: nostalgia

Se dovesse scegliere una sola parola per raccontare il libro, Giorgia non ha dubbi:
nostalgia.

Nostalgia dell’infanzia, della famiglia com’era, delle giornate condivise tra Rosa e Samuel. Ma anche nostalgia come modo di stare al mondo: vivere il presente guardando continuamente indietro, verso ciò che è andato perduto.

La nostalgia diventa il colore di fondo di ogni pagina:
una malinconia sottile, mai melodrammatica, che attraversa il racconto e lo rende riconoscibile a chiunque abbia avuto, almeno una volta, la sensazione di non riuscire a staccarsi da un “prima”.


Scrivere a mano, riscriversi due volte

“Le parole di chi resta” è il terzo romanzo di Giorgia Belvisi, ma lei è già al lavoro sul quarto.
Stavolta ha scelto di scriverlo “alla vecchia maniera”: carta e penna.

Racconta di avere sempre scritto gli altri libri su computer o telefono, approfittando di ogni momento libero in metro o sui mezzi per annotare idee al volo. Con il quaderno, invece, il processo cambia:

  • le idee devono essere pensate meglio prima,
  • non c’è il correttore a intervenire in automatico,
  • le cancellature a penna creano un flusso visibile di correzioni, ripensamenti, deviazioni.

Quando poi il testo verrà trascritto al computer, quel passaggio diventerà una prima fase di editing: rilettura forzata, frasi da accorciare, periodi da sistemare, punteggiatura da affinare. Un “doppio lavoro” che, in realtà, migliora il romanzo.


L’ultima parola (che non è mai solo una)

In chiusura di intervista, Giorgia tocca uno dei temi più delicati per chi scrive:
come si decide quando un libro è finito?

Non basta l’ispirazione libera, dice.
Serve anche metodo, una struttura, la capacità di dire “basta, adesso è completo così”, anche quando la tentazione di aggiungere, limare, modificare sarebbe infinita.

Per ora, l’ultima parola ce l’hanno i lettori.
A loro il compito di entrare in questa storia sospesa, ascoltare i silenzi di Rosa, riconoscere nelle pagine la nostalgia di chi resta e forse, tra una frase e l’altra, trovare anche un modo diverso di guardare ai propri addii irrisolti.

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